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giovedì 12 gennaio 2017

Il segreto dell'Albero della Vita. Considerazioni sulla poesia tra dualismo ebraico e filosofia occidentale di Stefano Iori





“Osanna, sanctus Deus sabaòth”: questo scrisse Dante Alighieri in apertura del canto VII del suo Paradiso. Deus sabaòth, secondo la traduzione di Angela e Giulio Malvani (Arbor Vitae, Edizioni Penne & Papiri, 1998) significa letteralmente “Dio delle opposte schiere”, ossia la divinità che a tutto ha dato vita e origine su base duale.
Il genio fiorentino mostrò dunque preciso interesse per la concezione duale che sta alla base del pensiero ebraico da cui fu affascinato e influenzato, anche grazie alla proficua amicizia con Immanuel ben Solomon ben Jekuthièl, poeta coevo e buon conoscitore della letteratura biblica e talmudica.

Il Dio degli ebrei ha dato vita al femminile e al maschile (Adam, nella Torà, fu creato a immagine di Dio stesso: femmina e maschio). Ha inoltre creato negativo e positivo, tenebre e luce, severità e grazia, freddo e caldo, morte e nascita. HaShem è il creatore degli opposti.

L'Albero della Vita, l'Otz Chiim descritto nella Cabbalà, appare come il trionfo di tale dualità. È  costituito da due rami e da un tronco. Gli elementi opposti, poco sopra riportati, sono evidenziati rispettivamente sul ramo sinistro e su quello destro. In mezzo c'è quello che potremmo definire la conseguenza (sebbene portante) di tale dualità, ovvero il fusto stesso dell'Albero, il tronco su cui sono incisi altri nomi. Tra morte e nascita, per esempio, c'è la parola vita, come tra tutti gli altri opposti viene a trovarsi l'elemento corrispondente in termini di equilibrio: tra freddo e caldo ecco la temperatura mite e tra severità (rigore) e grazia (dolcezza) leggeremo la parola equilibrio, ma anche misericordia e clemenza (vedi ancora Angela e Giulio Malvani, Arbor Vitae, Edizioni Penne & Papiri, 1998).
Come scrisse Isaia (45, 7), non vi può essere manifestazione (vitale) senza la preventiva differenziazione nelle coppie degli opposti: “... formando la luce e creando la tenebra, facendo la pace e scatenando le guerre, io, Geova, faccio tutte queste cose...”. Ciò significa che Egli creò l'Universo mediante il gioco del duale, ovvero tramite la separazione e la combinazione (alchemica) degli opposti.

Gershom Sholem nel suo libro La stella di David: storia di un simbolo (Giuntina, 2013), spiega come il principale simbolo dell'ebraismo sia divenuto tale solo passando dal crogiolo della storia. Tuttavia il Magen David (ovvero, correttamente, il carapace o lo scudo di Davide), altro non è che l'intreccio di due triangoli i cui vertici puntano in direzioni opposte, in alto e in basso. Un unicum che protegge, ma che nasce dagli opposti.

Tra i due rami dell'Albero della Vita, scrivevo poc'anzi, c'è dunque un terzo elemento: il tronco. Che non è Dio. Egli sta sopra l'Albero, oltre le tre nubi dell'Ain (il nulla), dell'Ain Soph  (senza fine, l'infinito) e dell'Ain Soph Aur (luce senza fine). Il Dio degli ebrei rimane immanifesto, dietro tali nubi, poiché è anteriore alle sue stesse opere, ovvero a ciò che Egli creò per offrire agli umani una via (l'Albero) per giungere il più vicino possibile alla Sua conoscenza.
Il tronco, in buona sostanza, siamo noi: gli uomini e le donne. Per elevarci, per raggiungere la sapienza e la luce, dobbiamo conoscere gli opposti (e qui serve lo studio) e poi trovare un equilibrio tra questi (e qui serve il fare – ovvero la poesia).
“Esegui e agisci più di quanto studi” o secondo altra traduzione “studiare a scopo di eseguire” è uno dei quarantotto requisiti per acquisire la Torà (Pirké Avòt, cap. VI-5). L'armonia va dunque cercata nel farsi del nostro comportamento, come pure nel farsi della poesia, intesa come lingua originaria, aurorale (originata dal bene e dal male e quindi dal fare-scrivere tra gli opposti). Lingua da inventare, come venne creato l'ebraico nei quarant'anni della peregrinazione nel deserto, dopo il  Kriat Yam Suph, il passaggio del Mar Rosso.

Per gli ebrei la lingua è il luogo in cui risiedono sia la fede che la sapienza. Le parole celebrano, ma hanno pure il potere di separare: dividono la quotidianità profana dal trascendente offrendo un “riparo” in cui “proteggere” il divino. Nella lingua ebraica lo straniamento mistico trova ristoro, prima di spingere l'uomo e la donna nell'oltre-misura della sapienza.

Della lingua della Torà, bisogna conoscere ogni parola e ogni lettera, ma anche i silenzi che vivono negli spazi vuoti tra le parole stesse e poi ancora tra una lettera e l'altra, dice un motto della tradizione. Un altro aforisma, attribuito a Rabbi Mendel, esprime una precisazione diversa (e quasi minacciosa) ma in linea con la precedente massima: “Ogni parola è una figura perfetta e chi getta ai demoni gli accenti della parola si comporta verso di essa come chi si solleva contro il suo prossimo”. In un  Midrash è poi scritto che “Questa nazione (quella dei giudei) combatte attraverso le parole”.

Parole e silenzi da conoscere e trattare con rispetto, ricerca della (im) possibile perfezione, lotta per la conoscenza. Non sono forse ricette ben più che adeguate per un poeta?

È dunque possibile, partendo dal seme più intimo dell'ebraismo, dire della poesia come fare-scrivere tra gli opposti e come lingua di fatto “nuova”?

La poesia, cui non può mai mancare la sincerità (sarebbe folle scrivere versi bugiardi) ha come punto di forza l'emozione di chi scrive e quella di chi legge (ancora un “due”) e questa non viene incisa nero su bianco nella lingua della comunicazione, che serve per intendersi su argomenti semplici o trasmettere informazioni, ma viene in luce (in voce) nel contesto dell'esplorazione di ciò che è ignoto e che può scriversi (solo) tramite la lingua poetica.  L'inconnu è d'altronde a portata di mano. Nella verità di ogni giorno, se vissuto con la grazia del pensiero e del dubbio (C'è qui, sull'orlo di chi siamo, un impensato da capire? - Yves Bonnefoy).
Ogni giorno l'uomo e la donna devono decidere se agire in un modo o nell'altro, se dire una cosa o il suo contrario. Dal dubbio viene la sapienza. Non a caso, tornando alla cultura ebraica, ogni paragrafo del Talmud nasce da un quesito cui si risponde nella dialettica.
In estrema sintesi, la poesia (sincera per antonomasia), ovvero il farsi della conoscenza, viene dal dubbio (dagli opposti) e lo supera con la scienza-arte dell'invenzione lirica, l'unica con cui è possibile sondare l'ignoto, ovvero ciò che ancora non si conosce e che viene a scriversi “per la prima volta”.

Circa l'elemento della novità (della originaria virginalità) della poesia non posso che ricordare come questa sia considerata da Martin Heidegger l’arte per eccellenza: tale superiorità le deriva dall’uso della parola in senso, appunto, inaugurale (originario) e quindi dalla creazione di un particolare linguaggio. Alternativo rispetto a quello teso a rendere semplicemente comprensibili i pensieri di chi dice o scrive. Alternativo nel senso, nel significato e nei significanti. Alternativo, perciò necessario.
Proseguendo lungo il percorso tracciato da Heidegger, di fatto, in poesia, la parola non è importante per ciò che esprime, bensì per il preciso coinvolgimento emotivo che realizza; mentre il linguaggio quotidiano si limita a rimandare agli oggetti semplicemente presenti, nella poesia la parola ha una propria unicità e un proprio valore: “è come se accadesse per la prima volta”, scriveva il grande filosofo tedesco.
Cogliendo e affermando il primato della poesia rispetto alla filosofia, Heidegger sostiene di fatto che in poesia il senso non ha bisogno di difese (ricordo il precedente accenno alla sincerità della poesia). La poesia fonda il senso. Poesia è la parola che istituisce, nomina lo spazio-tempo unico del decidersi iniziale.

L'ebraismo, dunque, ci insegna come la vitalità poetica nasca dagli opposti e come il dubbio stia alla base della sapienza. Heidegger ci offre poi come lascito intellettuale il dato che la sapienza stessa  non può che trarre forza e fine al tempo stesso dalla propria intrinseca auroralità: per andare oltre il conosciuto c'è bisogno di una lingua nuova. Dal due del dubbio al tre in divenire della sapienza.

Dai due rami dell'Otz Chiim nasce il terzo elemento, il tronco, e non il contrario, come potrebbe apparire da una semplice lettura in termini botanici. L'Albero della Vita è purissima invenzione simbolica e l'intrinseco insegnamento suo va percepito oltre il senso comune delle cose.

Nella cultura ebraica la poesia è, di fatto, la lingua propria delle Scritture, misteriose, da esplorare, da talmudiare e interpretare. Non a caso Il Cantico dei cantici, da molti ritenuto il più grande testo poetico d'amore di tutte le letterature, è parte integrante della Torà, sebbene uno degli ultimi testi accolti nel canone del Tanakh. Ed è un testo da molti ritenuto “incomprensibile”, o addirittura “vuoto”, come ad esempio sostenne Guido Ceronetti nelle edizioni del Cantico da lui curate per Adelphi, con varie date di pubblicazione. La magia del cantico starebbe dunque in un segreto ancora inconoscibile.
Quando a Giuseppe Ungaretti, in un'intervista televisiva, fu chiesto cosa facesse di uno scritto una poesia, il poeta  rispose che la poesia è tale se “contiene un segreto”. Ed ecco un'autorevole conferma di quanto prima riportato, alludendo a Ceronetti, circa il Cantico.

Se dovessi aggiungere tre parole agli elenchi dell'Otz Chiim, scriverei “segreto” e “svelamento” su due opposti rami e in corrispondenza, sul tronco, scriverei “poesia”.
La poesia rivela l'irrilevabile, accoglie ciò che è velato nel dire comune. L'esito di tale operazione sugli opposti vive di vita propria in quanto anelito dell'uomo verso il mondo superiore. E un mondo superiore può essere solo quello di una umanità che inventa una nuova lingua transpersonale. Proprio come la lingua ebraica, l'unica inventata, l'unica ad arte costruita per dire del Divino e, di fatto, per dare intima identità alla comunità prescelta.

"Il Creatore vuole dall'uomo la realizzazione della sua singolare irripetibilità, non l'adeguamento a uno schema collettivo prestabilito". Così scriveva Roberto Della Rocca nel suo libro Con lo sguardo alla luna (La Giuntina, 2015). E se l'essere umano è singolarmente irripetibile, sarà anche, di fatto, perfetto, in quanto unico.
La poesia non può che essere lo specchio di tale luminosa, singolare perfezione: una lingua nuova che non può adeguarsi allo schema prestabilito della comunicazione. La poesia ha quindi il compito (ineludibile) di crearsi procedendo per invenzione. Unica lingua dell'uomo e della donna “irripetibili”.

                                                                                                Stefano Iori

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